Parto piuttosto tardi. Devo aspettare che apra il bar
attraverso il quale posso uscire in cortile a raccogliere le mie cose che avevo
steso la sera precedente.
I cinque Km. per arrivare a Sahagun mi paiono lunghissimi
e penso alla sera precedente. Se fossi stata costretta ad arrivare fino lì non
ce l’avrei fatta. Sarei morta prima. Per fortuna non è andata così.
Non percorro la via ufficiale che costeggia la nazionale ma bensì lo
sterrato in mezzo ai campi che è il percorso originale ed è meno segnato ma più bello. La passeggiata è riposante. Il cielo azzurro pastello fa da sfondo al paesaggio verde. Cammino rilassata, ad un certo punto però, temo di aver
sbagliato. Ritorno sui miei passi e chiedo ad un signore che fortunatamente
esce dalla sua casa che mi conferma che il cammino è proprio quello, quindi
proseguo tranquilla. Per un certo tratto dobbiamo costeggiare la ferrovia (mi
pare di ricordare) e quindi attraversarla. Su questa strada vi sono pochissimi
pellegrini ed è per quel motivo che mi ero preoccupata, poi conoscendo la mia
svagatezza, non a torto. Infatti ogni tanto qualcuno chiama gridando: “pellegrinoooo!!! Pellegrinoooo!!!”
ed il pellegrino smarrito sono io.
| Sahagun |
Ad un certo punto mi viene il dubbio. Avrò scelto il
tracciato giusto? Coinvolgo così due ciclisti che anche loro non sanno darmi
una risposta adeguata, mentre disputiamo arrivano due signore spagnole e
coinvolgiamo anche loro nella discussione. Al fine decidiamo che quella è la
strada che porta a El Burgo Ranero dove io ho spedito la mochila.
Tranquillizzata da questo tormentone ci salutiamo tutti quanti e proseguiamo
ciascuno per proprio conto. Dopo poco ricompare uno dei due ciclisti che è
ritornato indietro apposta per confermarmi che quella è proprio la strada che
interessa me, avendolo chiesto ad un signore del posto. A questo punto non ci
sono proprio più dubbi.
Il cammino prosegue monotono e piatto fino a El Burgo
Ranero che si presenta di uno squallore mai visto. Piatto, incolore. Sembra un paese dimenticato da Dios, tanto che in giornata incontro il brasiliano che non sta bene e si sente la febbre. Vorrebbe misurarla ma non ha trovato un termometro in tutto il paese, né in farmacia né presso privati.
Arrivo
all’albergue municipale, mi metto in fila, davanti a me un ragazzo sta
appoggiando lo zaino a terra con una smorfia di dolore. È Franco, l’argentino. Avrei
dovuto fotografarlo adesso, nel momento della verità.
Intanto incontro il ballerino, e mi indica un albergue
dove lui ha prenotato ma la figlia ha preferito fermarsi al municipale. Io
disattendo la sua indicazione e recuperata la mochila mi avvio dietro
all’argentino.
Troviamo al El Nogal dove ero già passata davanti al mio
arrivo e avevo già avuto un contatto con l’hospitalero. Subito dopo arrivano i
due amici romani, Andrea e Marco.
Con i ragazzi mi sono incrociata diverse volte lungo il
cammino e loro sono sempre stati festosi nel salutarmi. Andrea spesso si è
fermato a chiacchierare con me. È un ragazzo sveglio, intelligente. Lo trovo
sempre inserito in gruppi di persone. Mi ha raccontato dei suoi studi, dei suoi
progetti futuri, della sorella che lavora in Spagna dei suoi progressi con la
lingua spagnola. Dello scambio culturale tra lui e Franco, lui insegna
l’italiano a Franco e Franco a sua volta lo spagnolo a lui. Sono un bel
terzetto. Uno diverso dall’altro e sono diventati amici.
Dividiamo la stessa camerata. Noto che la camicia di
Franco ha uno strappo nella manica. Lui mi dice che l’ha strappata
apposta. Gli rispondo che è bello lo stesso, anzi di più, bello e impossibile.
Lui sta cercando un termine che non trova allora mi chiede: “il contrario di
perfetto?” “Imperfetto” dico io “Imperfetto” ribadisce lui.
Verso sera si alza un vento terribile e molto freddo. Dei signori spagnoli vedendomi passare rannicchiata in me stessa si mettono a ridere commentando: "Frio, Frio!" e sembra un motivetto.

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